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lunedì 23 luglio 2018

L'EQUAZIONE MARCHIONNE E IL MERCATO TARDO CAPITALISTA CHE MANGIA SE STESSO



Mentre infuriano le polemiche in rete fra chi commenta in modo critico la imminente annunciata fine di Marchionne e chi ritiene disumano questo atteggiamento, vorrei prendere l'occasione per parlare non di Marchionne, verso cui la umana pietà impone il massimo riserbo, me del modello tardo capitalistico che lui ha incarnato e che non è certo imputabile a lui, anche se certamente lui è riuscito a farlo girare a proprio vantaggio tanto da far salire il rapporto fra salario manageriale e salario operaio che in FIAT ai tempi di Valletta era di 1 a 3, alla astronomica proporzione di 1 a 66.000. (ovvero il suo salario era 66.000 volte superiore al salario dell'operaio medio in FIAT). Nessun giudizio di valore su questo, ma l'occasione per rispolverare una attenta analisi di Emiliano Brancaccio comparsa su Liberazione ben 8 anni fa in tempi dunque (come si suol dire) non sospetti.
Marchionne  non è stato né “buono” né “cattivo”: egli è stato più semplicemente,  una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. 

Arrivato in FIAT quando l'azienda Torinese era all'avanguardia per la ricerca e lo sviluppo di motori alternativi e propulsione a idrogeno, si è sbarazzato immediatamente e spietatamente di un centro ricerche che era una eccellenza mondiale ma non era purtroppo funzionale al disegno capitalistico per realizzare il quale lui era stato reclutato, disperdendo così un patrimonio di conoscenza e di eccellenza riconosciuto a livello mondiale, portando al pensionamento anticipato fior di ricercatori che avevano la sola colpa di rappresentare capitale sociale mentre lui doveva valorizzare esclusivamente il capitale finanziario perchè il mitico mercato quello richiedeva. 
Marchionne è stato il prototipo e il genotipo di quel manager totalmente schiacciato sotto una visione totemica del mercato, mentre nella FIAT degli anni 60 (come nella Piaggio o nella
Olivetti della stessa epoca) grandi dirigenti visionari il mercato lo creavano e lo influenzavano a loro immagine proponendo prodotti che ritenevano utili a migliorare la condizione dell'essere umano.
Poi, con l'affermarsi dell'ultraliberismo reaganian-thatcheriano degli anni 70, è cambiato tutto. Il crollo del muro di Berlino e la conseguente affermazione di una globalizzazione dettata unicamente da interessi corporate e dalla logica del profitto estremo tanto da arrivare alla psicopatia (come ci ricorda il film Americano "The Corporation") determina un nuovo quadro di industrial relations basato sulla più sfacciata utilizzazione della competizione al ribasso dei diritti e al rialzo dei profitti, in un nuovo e inedito (ma oggi prevalente) ferocissimo darwinismo sociale.
La logica del profitto ha preso così il sopravvento come unica motivazione possibile dell'agire economico. 
E al culmine di questa deriva arriva Marchionne in FIAT. 
Le conseguenze di questa deriva sono state devastanti per la coesione sociale, lo spirito di uguaglianza e il benessere umano sociale e ambientale su scala mondiale. In perfetta sintonia con il mondo fossile, la speculazione finanziaria si è impadronita dell'economia reale, condizionando la politica a tutti i livelli da quello comunitario dove il sogno Spinellian/Delorsiano di una Europa esportatrice di diritti, benessere e prosperità ha lasciato posto all'incubo del debito e della troika, fino al più piccolo comune immobilizzato da assurdi criteri finanziari che ignorano i diritti dei cittadini, i valori fondanti della Comunità Europea e perfino gli obiettivi di sviluppo sostenibile dettati dall'ONU con l'Agenda 2030. Per capire meglio ci aiuta nella lettura  di quello che è successo l'analisi di Brancaccio:




"Se non si mette in discussione la piena apertura dei mercati non vi saranno le condizioni per un rilancio del movimento dei lavoratori
La globalizzazione dei mercati abbatte la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano da tempo l’esistenza di una correlazione statistica tra l’apertura di un paese ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di protezione sociale. 
I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera e propria capitolazione delle rappresentanze del lavoro, e a un conseguente, precipitoso declino delle tutele normative e sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.
Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana. Consideriamo ad esempio il caso FIAT e le sue ripercussioni su Federmeccanica e sul contratto nazionale. Marchionne rammenta ai media che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano o di Mirafiori (il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della capacità ma al contrario lo determina). 
Per questo motivo egli si dichiara pronto a spostare le unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere una forte accelerazione al prodotto per unità di lavoro. La FIAT detta in questo modo la linea alla quale il padronato italiano si accoda senza indugio: minacciare continuamente le delocalizzazioni per liquidare gli ultimi scampoli di movimento operaio esistenti nel nostro paese.
Ovviamente la libertà di movimento dei capitali non colpisce solo il sindacato italiano. Essa scuote le relazioni industriali in moltissimi paesi, siano essi avanzati o in via di sviluppo. Tale libertà oltretutto agisce sia sui salari diretti che sul welfare. Basti pensare agli effetti dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si recupera poi tramite i consueti tagli alla spesa pubblica.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale senza limiti, che da tempo alimenta una guerra mondiale tra lavoratori e che ha trovato nella crisi uno spaventoso fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può essere sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi poveri. Il caso tedesco è in questo senso emblematico. 
La minaccia di trasferire interi spezzoni di produzione all’estero ha contribuito a rendere la Germania un motore del dumping salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del mondo. Inoltre va ricordato che i sussidi del governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti. Ciò indica che il dumping salariale e fiscale può partire anche dal paese più ricco del mondo.
Di fronte a tali evidenze è curioso che soltanto il movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si sia posto in questi anni il problema di trarre un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto i socialisti, ma ha pure interessato frange della sinistra alternativa, delle aree di movimento e degli stessi partiti comunisti. Questa palese sudditanza verso l’apertura globale dei mercati genera un ritardo a sinistra che si rischia oggi di pagar caro. La crisi economica mondiale ha infatti scatenato un conflitto intercapitalistico tra liberoscambisti e protezionisti che durerà a lungo e che è destinato a mutare profondamente il corso degli eventi. Di questo scontro si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito. Ancora una volta la vicenda FIAT appare sintomatica. Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse sono superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché gli sarà concesso, egli minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove i profitti sono maggiori. Considerato che Berlusconi dichiara che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione» e che nessuna forza politica ha finora provato a ribattere su questo punto decisivo, è lecito prevedere che Marchionne e il padronato avranno gioco facile a qualsiasi tavolo delle trattative.
Esiste un modo per colmare il ritardo delle sinistre? È possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro sullo scontro in atto tra liberoscambisti e protezionisti? L’idea di condizionare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard del lavoro” è una delle opzioni possibili. Ma prima di approfondire le questioni tecniche, occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, difficilmente si verranno a creare le condizioni per un effettivo rilancio del movimento dei lavoratori."

Fin qui la profetica analisi di Emiliano Brancaccio per Attac nel 2010. 
Da allora c'è stato il Jobs Act, il regalo di 8000 euro l'anno per lavoratore assunto perpetrato con tale legge ai danni della comunità da parte di Renzi nel solo interesse di Marchionne, la de-italianizzazione della FIAT ormai diventata FCA con sede in Olanda, Detroit, il Canada le Cayman, ma non più certamente Torino.
Colpa di Marchionne? Non credo. 
Il sistema di cui Marchionne è una semplice equazione è entrato definitivamente in crisi perchè non è più in grado di garantire crescita, occupazione e redistribuzione della ricchezza, e come ci ricorda Jeremy Rifkin, un mercato che non riesce a garantire un reddito ai consumatori entra in crisi per mancanza di acquirenti, e mangia se stesso. Qui sta morendo, insieme a Marchionne, anche il modello finanziario fossile che ha permesso a quelli come Marchionne di emergere e prosperare, al prezzo di creare una disparità economica e sociale talmente elevata che ormai le 8 persone più ricche del mondo hanno un reddito combinato pari a quello dei 3 miliardi e mezzo di persone  che vivono sotto la soglia di povertà mentre 8 milioni di bambini ogni anno muoiono per mancanza di accesso al cibo e all'acqua.
Per tornare a Marchionne, se è vero che quello che lo sta uccidendo è un tumore ai polmoni ormai irreversibile e incurabile dovuto all'abuso di fumo, in un certo senso lo si potrebbe considerare vittima del suo lavoro, in quanto è facilmente ipotizzabile che l'eccesso di sigarette che il manager consumava era legato all'esigenza di  poter meglio sopportare lo stress del suo lavoro e la pesante consapevolezza che le sue decisioni distruggevano la vita di migliaia di altri esseri umani. 
Ma Marchionne in fondo ha solo interpretato al meglio l'aria dei tempi, in modo da massimizzare i suoi benefici in un sistema economico marcio, che alla fine non ha risparmiato neanche lui.
Insomma per dirla con il Capitano Kurz interpretato da un indimenticabile Marlon Brando in Apocalypse now!  Marchionne in tutto questo era solo "il garzone del macellaio inviato a incassare i sospesi..."
Il Capitano Kurtz in Apocalypse Now!


Fonte: https://www.italia.attac.org/index.php/finanza-neoliberismo/neoliberismo/3426-contro-l-apertura-indiscriminata-dei-mercati

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