martedì 21 aprile 2020

Omaggio a Clarence Clemons, sassofonista dell'anima!


Nel 1979 avevo abbandonato il sassofono per sempre. Dovevo fare l'avvocato e non stava bene andare in giro la notte per locali con il mio gruppo di smandrappati. Poi il mio amico Gianfranco mi diede una cassetta. Sopra c'era scritto a penna "Brus Springstin" e Borto Run (Gianfranco scriveva l'inglese foneticamente e era diventato famoso per una cassetta su cui aveva scritto Ronli Ston... ma quelli erano tempi in cui la musica circolava su cassette autoprodotte su cui si scriveva a penna secondo l'inglese maccheronico che si orecchiava da qualche DJ radiofonico dalla pronuncia non eccelsa e dalla grammatica approssimativa).  La traccia che dava il titolo all'album era la quinta. Quando le testine riprodussero la strofa "I want to know if love is wild, girl, we were born to run" il radioregistratore a cassette Sharp con cui ascoltavo  musica nella mia stanza all'università si  sollevò e rimase per qualche secondo  appeso come la risacca dell'onda prima dell'arrivo dello tsunami. 
Che si presentò sotto forma di assolo di sassofono. 
Note semplici in forma di terzine prima ascendenti, poi discendenti si susseguivano con la forza di un meteorite che ti si abbatte sulla testa. Sembrava di vedere le dita muoversi sui tasti. Il disegno melodico si ripetè due volte. La seconda si incartò in una terzina ripetuta con una sincope che lanciò una nota acuta da cui nacque una discesa vertiginosa fino agli inferi di quel grosso-grasso sibemolle basso, e quando sembrava che tutto fosse finito, invece le note si inerpicarono rapidamente su per la canna del sassofono fino a raggiungere le vette di un sovra-acuto che venne trattenuto giusto il tempo che la band cambiasse accordo e rilanciasse la tonalità per la ripresa della strofa cantata. Non so quante volte premetti il tasto rewind per risentire quella magia. Il primo impatto con i polmoni di Clarence Clemons fu questo. 
La sera stessa ricominciai a suonare. 
Quelli erano anni in cui suonare uno strumento era un valore. Chi aveva avuto il coraggio e il tempo di imparare a suonare, era ricompensato da numerose sincere amicizie. Nascevano gruppi come funghi. Alcuni straordinari, altri velleitari ma tutti uniti da una straordinaria passione per la musica, da una incontenibile voglia di "fare musica". Smettere di suonare a vent'anni (l'età che avevo in questa foto) non era normale. 
Ero prigioniero di una malintesa concezione della "serietà professionale" da cui mi sarei liberato definitivamente solamente un ventennio dopo quando un certo Bill Clinton riuscì a convincermi che si può suonare il sassofono e anche fare il Presidente degli Stati Uniti d'America, ma sto divagando... Insomma allora, in quell'estate del 1979, per capirlo mi ci voleva una emozione forte. 
E quell'emozione me la diede l'assolo di sax di  Clarence Clemons. "Voglio suonare come lui!, voglio fare esattamente lo stesso assolo, ripetere esattamente le stesse note, lanciare esattamente lo stesso grido di liberazione nel sassofono-megafono!" 
Ecco cosa succedeva a chi sentiva Clarence Clemons. Ma Clarence era molto di più di un sassofonista, per Bruce e anche per noi. 




Mariella Venegoni critica musicale de La Stampa, ha scritto "La fine di Clarence Clemons ieri 18 giugno, a 69 anni e mezzo, in seguito all'infarto che lo aveva colpito a Miami il 12 giugno scorso, lascia storditi e affranti gli appassionati di quel rock epico che non rinuncia ad essere giocherellone, rimandandoci al nostro Io-Bambino che non se ne vuole andare"
Con la sua immensa statura, il fisico corpulento, le treccioline dei suoi capelli, Clarence "Big Man" era un elemento imprescindibile della E-Street Band. Tramite il sax soffiava vigore e passione che inondavano il palco e il pubblico, e sapeva dare al rock un'impronta insieme malinconica e ritmicamente audace:   mescolava il suo istinto nero rhythm'n'blues con quello rock del suo fratello bianco, e capobanda che aveva conosciuto in New Jersey dove si era recato giovanissimo per fare del volontariato nei quartieri poveriFaceva molto sul serio senza prendersi sul serio: un'attitudine che solo i grandi posseggono. Clarence ti entrava dentro con il suo soffio. Rendeva la musica greve e lieve al tempo stesso, perchè con con tre  note riempiva una sequenza armonica con una tale intensità che la canzone senza il suo assolo perdeva peso, si disfaceva Infatti provate a immaginare "Thunder Road", "Born to run""Human touch" o le recenti bellissime "Radio Nowhere" e "Girls in their summer clothes", senza il soffio vitale di Clemons. Si 
depotenziano, diventano canzoncine ben suonate, con tutto il rispetto per il Boss. Lui faceva in modo che la canzone fosse in 
funzione del suo assolo e non viceversa. Avrebbe potuto suonare iljazz più sofisticato, entrare nei circoli esclusivi del "Village" e vivere 
una vita snob da epigono di John Coltrane. Invece ha scelto diseguire "The Boss", e ha messo il suo sassofono e la sua arte al 
servizio del sentimento più che della tecnica. Infatti i suoi disegni melodici non erano terribilmente complicati, ma l'emozione che ci metteva era irripetibile. Era come se dicesse "ragazzi, lo potete fare anche voi, ma metteteci sentimento! Non importa quanto veloce muovete le dita sui tasti del sassofono o quante scalate in Si Bemolle minore riuscite a mettere fra una nota e l'altra, ma l'importante è che quella nota gridi tutta la vostra gioia, o urli il vostro dolore,esprima quello che avete dentro, esponga la vostra anima!". 
E così ha vissuto una vita rock. 
E ha reso un po' più rock anche la mia. E quella di chissà quanti altri.
Grazie Clarence, per come facevi diventare vivo un pezzo di ottone attaccato a un'ancia di canna. E grazie per le  parole con cui ci hai lasciato in questa intervista in cui hai dimostrato anche la tua grandissima umanità. 
Play on Big Man!!!




L'intervista a Clerence Clemmons è qui






























mentre a questo link c'è  un emozionante tributo alla sua musica con





Bruce




























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