Nel luglio 2014 nasce il comitato interprovinciale NO TAP NO FOSSILI, (anche conosciuto come "lo sparuto gruppo") per evitare l'ennesimo scempio del territorio sulla pelle dei cittadini e dell'ambiente, denunciando le mistificazioni del consorzio TAP che sperava di comperare la benevolenza dei cittadini sponsorizzando qualche manifestazione dell'estate salentina. Ma andiamo con ordine.
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Lo "sparuto gruppo" in piazza Sant'Oronzo a Lecce. |
Quando mi arrivò il
primo invito a firmare contro la TAP, non ero sicuro di aver capito bene. Per un
attimo venni assalito dal dubbio che mi stessero invitando a firmare
contro la compagnia di bandiera del Portogallo che era l’unica
TAP che conoscevo.
Poi leggendo meglio
vidi in realtà che TAP stava per “Trans Adriatic Pipeline”, e ebbi un istintivo
moto di ammirazione per chi aveva concepito l’acronimo estremamente evocativo: TAP
in inglese significa “rubinetto” il che si associa naturalmente a un gasdotto.
Ma l’ammirazione si
fermò qui. Perché immediatamente mi resi conto che si trattava di un progetto
dal potenziale devastante per il nostro territorio, quindi c’era poco da
ammirare. Allora decisi di attivarmi per
impedire questo scempio e accettai con entusiasmo l’invito degli organizzatori
della protesta anti TAP a partecipare alle loro iniziative dove portai il mio contributo motivato e ragionato sulla questione
Sia chiaro che la mia
avversione a questo ennesimo gasdotto non è per partito preso. Infatti non sono
contrario al gas, che rimane a mio avviso l’unico combustibile fossile
ammissibile in una fase di transizione verso una economia solare, tanto è vero
che in tutti i piani “Territorio Zero” il gas viene identificato, come un ottimo carburante sostitutivo sia per i mezzi di
trasporto pubblici, che per le centrali a oli combustibili o a carbone. Ma procediamo con ordine.
Gas, carbone,
petrolio e uranio sono le fonti fossili e fissili della seconda rivoluzione
industriale. Chi segue il mio lavoro sa che si tratta di fonti che appartengono a
uno scenario economico ormai superato e in crisi.
Ed è altrettanto noto
che l’energia basata su queste fonti fossili ha prodotto non solo devastazioni
del territorio, dell’ambiente, del clima e della salute umana, (entropia
fisica) ma anche una economia estremamente centralizzata e verticistica e una
società diseguale in cui la ricchezza si è concentrata in poche mani a
discapito della stragrande maggioranza della popolazione mondiale (entropia
sociale) perché si tratta di fonti energetiche il cui sfruttamento presuppone
una altissima intensità di capitali e un ancor più elevato standard di profitti.
La crisi di questo
mondo fossile, può rappresntare l’occasione di affermazione di un mondo solare, con una
società di eguali che utilizzano la radiazione diretta del sole per alimentare
le proprie attività economiche ed umane, e dunque l’occasione di un grande processo globale di redistribuzione della ricchezza sul pianeta.
Un grande riequilibrio
non solo ambientale e climatico ma anche socio economico,
Una strategia sancita
dall’Unione Europea che ha abbracciato l’idea di favorire la transizione verso
una “TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE” (WD
216 05/07/2007) in cui tutti i cittadini diventino consumatori produttori di
energia e in cui i grandi gruppi energetici perdano il loro potere di condizionamento
economico politico mediatico e si limitino a offrire servizi
energetici basati sull’integrazione fra tecnologie
solari.
Fare profitti sulla
pelle della gente, sulla devastazione dei territori, sull’inquinamento di aria
ed acqua che sono di tutti non è bello. E il fatto che abbiamo costruito una
civiltà industriale su questi metodi non legittima a
continuare a farlo, sia per ragioni di giustizia umana e sociale, che per
ragioni di efficienza complessiva del sistema.
Infatti, il sistema
economico basato sui fossili, con tutta la sua intensità di capitali e la
conseguente eccessiva importanza conferita alle grandi banche d’affari e ai
grandi centri della finanza speculativa mondiale, è entrato definitivamente in
crisi. Non funziona più, come tutti i sistemi complessi basati su risorse non
infinite quando si avvicina il momento del loro definitivo esaurimento.
Che sia ben chiaro
che la crisi del modello energetico economico industriale basato sui fossili,
se portata alle estreme conseguenze, non comporta la fine del pianeta, ma la
fine della razza umana sul pianeta. La nostra estinzione. Rifkin lo denunciava
già trent’anni fa nel libro ENTROPIA.
E da due decenni i migliori climatologi del
mondo riuniti nell'IPCC stanno tirando il campanello d’allarme: qui è in gioco la nostra
sopravvivenza.
Ma il destino non è
segnato. Si possono ancora cambiare i modelli energetici ed economici,
introducendo, in alternativa al paradigma fossile, quello solare.
Come raccomanda l’Europa, e come sta facendo
la Germania che ha preso la decisione irreversibile di uscire dal nucleare
entro il 2023 e di andare comunque verso una complessiva decarbonizzazione in una data che si colloca intorno alla metà
del secolo.
Secondo alcuni si
tratta di un programma eccessivamente ambizioso che non sarà realizzato, in
quanto le fonti solari sarebbero insufficienti a permettere la necessaria massa
critica per portare avanti una economia moderna. “Facciamo pure eolico e fotovoltaico,” è l’argomento di costoro, “ma sappiamo in partenza che copriremo sempre
solo una parte dei bisogni di una società moderna e che quando poi è necessario
mandare avanti una industria pesante e una economia sviluppata, bisogna essere realistici
e far ricorso alla densità produttiva
del petrolio, del nucleare e degli altri fossili”.
Ebbene nulla di più
sbagliato. E’ vero invece che non c’è niente di più realistico del sole. Che si
levi al mattino è la nostra unica certezza. Che ci sia petrolio per altri cento
anni o meno non lo sappiamo. Per non parlare di ossimori quali “nucleare sicuro”
o “carbone pulito”. I fossili non sono “realistici”. Sono solo la fonte
energetica che permette di mantenere in vita un modello economico ad alta
intensità di capitali e di profitti a vantaggio di pochi, un modello che, come
abbiamo visto, non è affatto più
efficiente e più affidabile di un modello basato sulle fonti solari.
Infatti il sole irradia
la terra con una quantità di energia
superiore di quindicimila volte a quella che noi consumiamo ogni giorno. Quello che i fossili e le energie
convenzionali hanno in più dell’energia solare, è una tecnologia più sviluppata
(e più inquinante) perché la ricerca ha
privilegiato da sempre le fonti ad alto impatto ambientale.
Preso atto di questo
la Germania ha cominciato a sviluppare le
tecnologie energetiche rinnovabili e a investire massicciamente nella ricerca
solare, (tanto che il Fraunhofer Institute di Friburgo è la punta di diamante
della ricerca rinnovabile mondiale)
anche se loro il sole non ce l’hanno.
Il loro ragionamento
è molto semplice: sviluppiamo le energie solari e poi le vendiamo noi ai paesi
che il sole ce l’hanno ma che, improvvidamente, continuano a concentrarsi solo
sui fossili (come purtroppo l’Italia).
Il risultato è sotto
gli occhi di tutti: la Germania ha creato in pochi anni oltre 500.000
posti nelle tecnologie energetiche della
Terza Rivoluzione Industriale e ha “sbancato” il conto
energia italiano. E non abbiamo ancora visto niente. Specialmente se
stupidamente, continueremo a pensare al nostro paese come l’hub del gas
europeo, piuttosto che come la punta di diamante dell’energia solare nel
mediterraneo. E qui veniamo alla TAP.
In una prospettiva di
Terza Rivoluzione Industriale, abbandonato il ciclo energetico fossile per
quello solare, gli impianti energetici vanno pianificati secondo un accurato
bilancio energetico che parte dai bisogni del territorio, per poi pianificare,
in ordine di priorità:
1) gli interventi di
efficienza energetica,
2) gli interventi
relativi all’energia rinnovabile distribuita (cioè integrata nel tessuto
economico del territorio e nelle costruzioni locali),
3) gli impianti rinnovabili cosiddetti “industriali” (ossia su
larga scala e su territorio non agricoli),
4) e infine gli impianti
da fonti fossili, come tecnologie atte a coprire la transizione verso uno
scenario completamente post-carbon.
Fra gli impianti da
fonti fossili, qualora se ne appalesi la necessità, la priorità va data al gas,
che è di gran lunga l’idrocarburo meno emissivo.
Tutto questo schema astratto
va poi calato nella realtà di un determinato territorio, prendiamo l’Italia (e il Salento).
Ed è qui che si dimostra
la totale inutilità (oltre che dannosità) della TAP.
Infatti in Italia siamo in
una situazione di overcapacity elettrica. In altre parole, in Italia abbiamo
troppa elettricità. Cerchiamo di capire meglio che sta succedendo: in Italia
abbiamo centrali termoelettriche per 78mila MW di potenza installata a cui
dobbiamo aggiungere almeno 45mila MW da rinnovabili. A fronte di ciò abbiamo
una richiesta per soddisfare la quale sono sufficienti 57mila MW di potenza
installata. Eppure si continua a costruire e autorizzare centrali inquinanti,
Una prima considerazione: in Italia c’è una assoluta
mancanza di pianificazione, un tema su cui la Strategia Energetica Nazionale
(SEN) "sorvola" colpevolmente per evitare di svelare che i grandi
produttori di energia stanno sbagliando i loro investimenti da vent’anni e
continuano a investire in inutili impianti di produzione di energia elettrica
da fonti fossili. Dal 2002 a oggi abbiamo visto l’entrata in funzione di nuove
centrali a gas e la riconversione di centrali a olio combustibile a carbone, il
che ha portato appunto, secondo i dati di Terna, il totale di capacità
produttiva di centrali termoelettriche installate a 78mila MW di potenza, (a cui si sono aggiunti i 45mila MW da fonti rinnovabili).
Se consideriamo che il
record assoluto di richiesta alla rete in Italia è di 56.822 MW, si
comprende come l’ultimo dei problemi che ha oggi l’Italia sia quello di
aumentare la propria capacità di produrre energia. Ne produciamo più del doppio
di quella che il mercato richiede. Alcuni attribuiscono questa overcapacity alla
caduta di domanda dovuta alla crisi, per cui passata la crisi ci sarà bisogno
di quelle centrali. Ma innanzitutto va rilevato il fatto
che questa crisi non passerà perché è la crisi terminale del modello di
sviluppo fossile della seconda rivoluzione industriale, e se ne uscirà solo
attraverso un modello tutto nuovo, basato appunto sul paradigma solare. E comunque
anche ammesso che ci fosse una timida ripresa, questo riassorbirà solo una percentuale minima
della sovraccapacità (diciamo il 20%). Il resto è dovuto alla
ingordigia e alla miopia dei grandi gruppi energetici per i quali il vero
business non è il mercato dell’energia, ma costruire centrali e impianti (come
ad esempio i gasdotti) indipendentemente dalla reale richiesta del mercato
e utilità economica.
In definitiva l’unico problema che non abbiamo in Italia
oggi è quello della scarsità di energia e quindi della necessità di realizzare
nuove centrali e nuovi gasdotti per alimentarle.
Nonostante ciò ci sono invece, secondo i dati del Ministero dello
Sviluppo Economico 6 centrali in fase di realizzazione sono per ulteriori
3.543 MW.
Poi ce ne sono addirittura ben 38 in corso di
autorizzazione tra gas, metano, carbone, per ulteriori 23.990 MW.
E tutto questo mentre
il contributo dalle fonti rinnovabili al fabbisogno energetico nazionale
diventa sempre più rilevante (anche se l'inadeguatezza delle reti in alcune
Regioni, la mancanza di pianificazione
di sistemi di accumulo e la mancata previsione di incentivi all’autoconsumo crea problemi nella distribuzione dell’elettricità da
fonte rinnovabile, che è per sua natura discontinua).
E così progressivamente,
quegli impianti da fonti fossili, nati come l'unica soluzione all’approvvigionamento
energetico principale del paese, cadono nella marginalità e nell’irrilevanza,
tanto che ormai la gran parte si giustificano come impianti che potrebbero
servire come “riserva”.
Ma oltre che irrilevanti ingombranti e marginali, gli
impianti fossili sono anche un costo e una perdita economica netta per chi
(scelleratamente) li ha pianificati e finanziati, esponendosi contestualmente
con le banche.
Ecco che allora, in modo fortemente distorsivo del mercato, nel Decreto Sviluppo del Governo Monti vediamo
comparire, sussidi per
vecchie centrali a petrolio che
verranno presi direttamente dalle bollette delle famiglie (il cosiddetto “Capacity payment”) e che peraltro non
passeranno mai il vaglio degli “aiuti di Stato” dell’Anti trust Europeo. Così,
con la scusa di una improbabile emergenza energetica (tanto più improbabile in
quanto siamo in una situazione di forte sovra-capacità produttiva, come si
diceva prima), si offrono “aiuti” a
queste centrali vecchie e inquinanti, spesso posizionate in zone abitate, e si
prevedono deroghe alla normativa sulle emissioni in atmosfera o alla qualità dei
combustibili” e le centrali “sono esentate dall’attuazione degli autocontrolli
previsti nei piani di monitoraggio, con deroga alle prescrizioni nelle
autorizzazioni integrate ambientali”, addirittura superando “gli obblighi
relativi alla presentazione di piani di dismissione”.
In pratica, gli impianti potranno funzionare al di
fuori di qualsiasi controllo ambientale, in una situazione di
autentico far west normativo, con un guadagno
sicuro. Un provvedimento che sembra
scritto sotto dettatura delle lobby delle centrali più inquinanti, proprio
coloro che deridevano le rinnovabili come energie “leggere” e incapaci di fare
massa critica, e che vedono con terrore il fatto che sempre più spesso invece, le fonti
rinnovabili in determinati momenti, mandano avanti il Paese (e intere regioni)
da sole. Da ultimo a giugno. Vedere: http://cetri-tires.org/press/2013/16-giugno-2013-le-rinnovabili-coprono-lintero-fabbisogno-energetico-italiano/?lang=it .
Adesso, in questo far west normativo, si inseriscono tre
gruppi esteri che, totalmente decontestualizzati dai bisogni energetici del
paese (e della regione) vengono a proporre la TAP, un gasdotto che dovrebbe
alimentare un sistema elettrico già al collasso per eccesso di capacità produttiva.
Ma siamo pazzi?
Abbiamo perso ogni e qualunque capacità di valutare le
cose secondo logica? Abbiamo davvero deciso che la pianificazione economica e
energetica ce la facciamo fare dai consigli di amministrazione di gruppi
energetici governati da alieni con la pupilla a forma di dollaro che venderebbero la
loro madre per staccare una cedolare trimestrale del 25% più alta?
Abbiamo davvero deciso che l’integrità e la salubrità del
nostro territorio, delle nostre coste, la bellezza del nostro mare, la
ricchezza delle sue varietà animali e vegetali, devono essere messe in secondo
piano rispetto ai calcoli di qualche multinazionale abituata a fare i soldi con
i fossili e con la conseguente devastazione dell’ambiente?
Distruggere la
vocazione turistica del nostro territorio con i suoi asset enogastronomici, paesaggistici,
archeologici, naturalistici e culturali già è stato
imperdonabile quando furono fatte le scelte scellerate di Taranto e Brindisi.
Ma adesso sarebbe intollerabile.
Della TAP non c’è alcun bisogno, comunque la si guardi.
Non ne ha bisogno il Salento, non ne ha bisogno la Puglia e non ne ha bisogno l’Italia,
che sono in over capacity produttiva di energia, particolarmente di energia da
gas.
Alcuni dicono che la TAP farebbe parte di una strategia
geopolitica alternativa ai grandi gasdotti russi del nord Europa, per cui
sarebbe necessaria all’Europa per ragioni geopolitiche. Bene! Mi compiaccio! Allora noi dovremmo
devastare San Foca e 60 km di costa salentina per portare il gas agli svizzeri?
Apriamo il dibattito su questo con i cittadini e vediamo che ne pensano…
E poi apriamo il negoziato con l'Europa su questo. Magari si scopre che in questo caso il punto di approdo del
gasdotto potrebbe essere un altro, più a nord. Magari si scopre che anche l’Europa
non è che debba davvero continuare a consumare e sprecare gas ai ritmi
scellerati attuali, e che forse la risposta sia in un serio programma di
efficienza energetica e rinnovabili e non in una mega opera per sfruttare un
gas comunque in via di esaurimento e la cui fonte è comunque in territorio sotto una forte influenza russa.
Altri dicono che creeranno 2000 posti di lavoro? Quanto qualificati?
E per quanto tempo? E con quali costi economici e ambientali? E poi non dissero così anche per l’Italsider o
per la centrale di Cerano?
E guardateli adesso questi territori, ridotti a simboli di una crisi entropica
senza precedenti, devastazione fisica e morale, disperazione e sofferenza
umana. Davvero vogliamo dar loro ancora credito?
O, se davvero vogliamo creare lavoro, non possiamo
piuttosto partire con serie strategie locali Territorio Zero, che di posti di lavoro ne
creano dieci volte di più?
Fare energia secondo i dettami della Terza Rivoluzione
Industriale creando reti di piccole e medie imprese che offrono servizi
energetici integrati ad alto valore aggiunto, solar cooling per gli alberghi, irrigazione
fotovoltaica e refrigerazione solare per le aziende agricole, smart grid per
uffici e condomini, idrogeno e elettrico per i trasporti e per gli accumuni
energetici in rete, … E poi chiudere il ciclo dei prodotti senza rifiuti con
campagne locali rifiuti zero, banche del rifiuto, centri di riparazione dei
prodotti e mercati dell’usato e del baratto, e accorciare la filiera dei
prodotti agricoli imponendo e facilitando l’acquisto di prodotti locali e scoraggiando
quelli di filiera lunga (spesso malavitosa) dei mercati generali, … Ecco la
nostra idea di società, una società che rispetta
il suo territorio e da ciò genera risorse economiche per tutti, e non, come la TAP
che dalla devastazione del territorio, trae profitti per pochi grandi gruppi (e qualche
prezzolato locale).
Una società Territorio Zero, in cui si pianifica
localmente nell’interesse dei cittadini e non dei grandi gruppi energetici. Non
mi pare che i nostri amministratori a livello locale e nazionale lo abbiano
capito. Mi pare invece che lo abbiano capito benissimo i cittadini come
dimostra il moltiplicarsi di iniziative come PaTAPum, e il successo della
raccolta di firme contro questo ulteriore monumento all’insensatezza della
logica del profitto e dei fossili che qualcuno ha voluto chiamare come la
compagnia aerea del Portogallo.
Di seguito posto alcuni link dei quali riproduco per
facilità di lettura i passi più salienti e più connessi con la mia riflessione.
Ancora in
calo la domanda di energia elettrica nel mese di luglio.
Secondo i dati mensili forniti da Terna (pdf), sebbene la richiesta sia
decisamente più elevata del mese precedente (29,9 TWh contro 25,7 TWh), è in
diminuzione rispetto al luglio 2012 (-3,3%,
-3,6% se depurata dagli effetti di calendario e temperatura).
Resta elevato il contributo
mensile delle rinnovabili elettriche che sulla produzione
risultano del 40,5% e sulla domanda del 35,9% (consideriamo almeno 1 TWh da biomasse
al momento inserito da Terna nel termoelettrico). Ancora in doppia cifra la
quota di generazione dal fotovoltaico sulla produzione netta: 11,1%.
Sulla richiesta di elettricità il fotovoltaico ha soddisfatto invece il 9,87%.
Notevole anche per
questo mese il calo del contributo del
termoelettrico, -14,1% rispetto al luglio 2012. Segno positivo,
sempre rispetto ad un anno fa, per idroelettrico (+18,8%), fotovoltaico
(+22,1%) e geotermoelettrico (+4,8%); in calo l’eolico (-18,3%).
A luglio l’energia
elettrica richiesta in Italia è stata coperta per l’88,2% da produzione
nazionale e per la quota restante da importazioni (saldo estero +10,3%,rispetto
a luglio 2012). La potenza massima richiesta si è registrata venerdì 26
luglio alle ore 12 ed è stata di 53.942 MW.
Dall’inizio
dell’anno la domanda di energia elettrica è diminuita
del 3,5% rispetto
al periodo gennaio-luglio 2012 (-3,2% in termini decalendarizzati).
La quota delle fonti
rinnovabili sulla produzione netta fino al 31 luglio è stata pari al39,9%; sulla domanda si attesta al 35,4%.
In notevole crescita, sul periodo gennaio-luglio 2012, la produzione
idroelettrica (+34%), eolica (+25,5%) e fotovoltaica (+19,8%, quasi 3,3 TWh in
più). Il FV copre finora il 7,36% della domanda e contribuisce per l'8,4% della
produzione netta (vedi grafico, clicca per ingrandire).
Su base territoriale la richiesta di energia elettrica da inizio anno, vede il
maggior calo, rispetto allo stesso periodo 2012, in Sardegna (-20,8%) e in
Italia centrale (-7%). La domanda elettrica ha segno positivo solo in Lombardia
(+2%) e nell’area Emilia Romagna e Toscana (+0,5%).
Dal 2008 al 2030 le energie rinnovabili
potranno far guadagnare al sistema Paese fino a 49 miliardi di euro. Tra i
benefici le ricadute sull'occupazione e sul Pil, il risparmio su combustibili
fossili ed emissioni e l'effetto di riduzione dei prezzi dell'elettricità. Nel
solo 2012 tagliando il PUN nelle ore diurne, ci hanno fatto risparmiare 1,4
miliardi di euro.
Dal 2008 al 2030 le rinnovabili faranno guadagnare al sistema Paese
italiano fino a 49 miliardi di euro, grazie alle ricadute
sull'occupazione, al risparmio sull'import di combustibili fossili e non ultimo
all'effetto che hanno sul prezzo dell'elettricità: nel solo 2012 tagliando il
PUN nelle ore diurne, cioè quando entra in azione il fotovoltaico, ci hanno
fatto risparmiare 1,4 miliardi di euro. E' questo probabilmente il dato più
significativo contenuto nel RAPPORTO IREX 2013 di Althesys, presentato questa
mattina nella sede dell GSE a Roma.
Il rapporto da un'interessante fotografia
dell'industria italiana delle rinnovabili e di come sta
cambiando. Il forte calo dei costi delle tecnologie (-30% in un anno per i
moduli FV), non è però accompagnato da un analogo calo delle spese
burocratiche, mentre il taglio degli incentivi si fa sentire duramente non solo
nel mercato italiano ma anche in Europa e il costo dei capitali sta diventando
determinante (vedi immagine sotto). Ciononostante nel 2012 le aziende italiane
delle rinnovabili hanno mosso 10,1 miliardi di euro, con sempre più investimenti all'estero e un aumento della concentrazione. Ma
quello che più ci interessa del report è la valutazione dei costi-benefici che
le energie pulite comportano per l'Italia.
La cost-benefit analysis di Althesys è
costruita comparando due scenari: da un lato l’effettivo mix di fonti dal 2008
e la sua prevedibile evoluzione al 2030, dall’altro una situazione ipotetica in
cui la produzione elettrica è solo realizzata con fonti fossili. Nel valutare
l'evoluzione delle rinnovabili poi si considerano altri due percorsi possibili: uno Business as
Usual assume che si raggiunga al 2020 una copertura del 35% dei consumi elettrici
tramite rinnovabili e 42% al 2030; l'altro definito Accelerated Deployment Policy, ipotizza che invece si arrivi al 38%
al 2020 e al 45% al 2030. Risultato: nel primo caso le energie pulite darebbero
un beneficio netto di 18,7 miliardi, nel secondo il
vantaggio netto per il Paese arriverebbe a 49 miliardi di euro.
Ma andiamo a vedere le voci dell'analisi di Althesys (vedi anche tabella,
clicca per ingrandire). Tra i costi la voce principale è quella degli incentivi: circa 221 miliardi, volendo arrivare al 2030 con il 42% di rinnovabili
nel mix elettrico e circa 238 puntando al 45% al 2030. Altro costo gli adeguamenti del sistema elettrico necessari ad
accogliere le fonti pulite non programmabile nel sistema elettrico: 1,5 e 1,8
miliardi.
Tra le principali voci di beneficio del bilancio, invece, vi sono le ricadute occupazionali lungo tutte le diverse fasi della
filiera. Gli occupati incrementali nelle rinnovabili italiane, cioè solo i posti
di lavoro che non esisterebbero in assenza di rinnovabili, dalla fabbricazione
di impianti e componenti fino all’O&M, sarebbero tra i 45.000 e i 60.000 al
2030. I benefici valutati lungo tutta la vita utile degli impianti sono
compresi tra gli 85 e i 96,6 miliardi di €. Le ricadute sul PIL che considerano il valore aggiunto
generato dall’indotto, al netto di quanto spetta agli occupati diretti,
porterebbero invece i benefici tra i 28 e 33 miliardi.
C'è poi il risparmio nell'import di fonti
fossili e la riduzione del fuel risk: tra 8 e 10 miliardi di euro anche se, avvertono gli autori,
le ricadute sul sistema potrebbero essere anche maggiori, soprattutto in
situazioni di tensione sui prezzi dei combustibili.
La voce di beneficio che, rispetto alle precedenti edizioni dell'analisi
Althesys, ha subito la maggiore variazione è quella relativa alla riduzione delle emissioni di CO2. Il beneficio economico è stato rivisto
al ribasso dato il crollo del prezzo della CO2, sceso del 43% nel
2012. Nel 2030 dunque le emissioni di CO2 evitate grazie alle rinnovabili, tra
i 68 e gli 83 milioni di tonnellate, avranno un valore tra i 2,9 e i 3,6, a cui
vanno aggiunti tra i 2,8 e i 3,4 miliardi di euro per evitate emissioni di NOx
e SO2.
Infine, l'ultima voce appartenente ai beneficio anche se poco considerata è
molto consistente: il risparmio che le rinnovabili
provocano sui prezzi dell'elettricità, il cui valore
cumulato al 2030 è compreso tra i 41 e i 47 miliardi. Questa voce è quella
che è più aumentata di peso rispetto all'analisi dell'anno scorso e che sarà
sempre più importante con la maggiore penetrazione delle rinnovabili sul
mercato elettrico.
Come sappiamo, infatti, l'energia a costo marginale nullo immessa sul
mercato dalle rinnovabili taglia il prezzo dell'elettricità in Borsa nelle ore
del picco di domanda diurna, quando produce il fotovoltaico, il cosiddetto
effetto peak-shaving. Nel 2012 la
differenza tra il PUN nelle ore di picco in cui è immessa in rete l’energia
prodotta dagli impianti FV e il PUN delle ore di picco non solari è variata, in
base al livello della domanda, tra gli 8 e i 42 €/MWh, contro i 2-14 €/MWh
dell’anno precedente (vedi grafico sotto). Ciò ha permesso un risparmio
stimabile in quasi 1,42 miliardi di euro nel 2012, contro i 396 milioni
del 2011.
Contemporaneamente si è assistito però a un rialzo dei prezzi nelle ore serali, nei quali gli
impianti convenzionali recuperano i guadagni erosi di giorno dal fotovoltaico:
questo rialzo del picco serale ha portato un maggiore onere nel 2012 rispetto
all’anno precedente di 586 milioni di euro. Quindi, volendo fare una
valutazione prudenziale delbeneficio del peak-shaving nel 2012 si può ipotizzare di sottrarre da 1,42 miliardi di euro risparmiati nelle
ore diurne circa 586 milioni imputabili al rialzo dei prezzi nelle ore serali.
Di conseguenza, il valore inserito nell’analisi costi-benefici è l’effetto peak shaving netto complessivo conseguito
nel 2012 e imputabile al solo fotovoltaico. Questo è stato dunque pari a circa 838 milioni di euro.
Secondo le elaborazioni della
Staffetta Quotidiana sui dati di Snam Rete Gas, in giugno l'Italia ha consumato
3.441,3 milioni di mc di gas, oltre 600 mln mc in meno rispetto a giugno 2012
(-15,9% che segue il -14,3% di maggio) e il 20,2% in meno dello stesso mese del
2011.
Le centrali elettriche,
colpite dalla crisi della domanda elettrica e dalla concorrenza di rinnovabili
e carbone fanno registrare un calo del 35,9% sul 2012 e del 40,1% sul 2011. Un
volume pari a oltre il 43% in meno rispetto al giugno 2003 a dispetto dei circa
20 GW di centrali a gas realizzati nel decennio successivo.
potenza lorda elettrica
installata supera in Italia i 110mila megaWatt, ma circa il 40% è in eccesso e
resta di riserva in attesa che i consumi di energia tornino a crescere. Una
quota elevata che negli altri Paesi non supera il 20-30 per cento. A pagarne le
conseguenze sono soprattutto gli impianti termoelettrici, in particolare i
cicli combinati, che producono per il mercato.
In certe ore del giorno le rinnovabili arrivano
a soddisfare fino al 23% della richiesta. Nel termoelettrico invece sempre più
stabilimenti chiudono, come a Cremona, Roma, Porto Marghera, Gela e Falconara.
D’altronde, che le
aziende elettriche fossero consapevoli della dinamica in atto, lo conferma uno
dei passaggi centrali della relazione del presidente di Assoelettrica
all’assemblea annuale dell’Associazione del 14 giugno 2006: «Nel segmento della
generazione sono stati costruiti, o in fase di realizzazione, nuovi impianti
greenfield a ciclo combinato per una potenza complessiva di 13.500 MW […] Sono
in attesa di realizzazione circa 6.000 MW già autorizzati, la cui entrata in
esercizio è destinata a proiettarsi all’inizio del futuro decennio. Ai valori
della nuova capacità termoelettrica vanno aggiunti quelli degli impianti a
fonti rinnovabili che, da qui alla fine del decennio, dovrebbero far registrare
una crescita di potenza valutabile in almeno 2.500 MW,peraltro insufficiente per il
raggiungimento degli obiettivi fissati in sede europea. [...] I
risultati di questa imponente iniziativa, tra l’altro intervenuta in un
contesto tutt’altro che stabile e definito, consentiranno al Paese di disporre
di un parco di generazione di primo ordine in termini di efficienza e di
modernità e di un adeguato margine di riserva» (secondo corsivo mio).
«Obiettivi fissati
in sede europea», che non potevano più essere solo quelli del Protocollo di
Kyoto, visto che nel gennaio dello stesso 2006 una comunicazione della
Commissione europea aveva lanciato il pacchetto clima/energia,
tanto che già nel 2007 (prima dell’insorgere della crisi economica, che ha
quindi solo aggravato la situazione) sulla rivista Energia, Alberto Clô e Stefano
Verde scrivevano che con l’attuazione del pacchetto «la quota di produzione
lorda da FER potrà arrivare a coprire […] il 40% di quella italiana», cui va
aggiunto l’apporto degli impianti cogenerativi.
Ciò nonostante, le
aziende elettriche hanno continuato a investire in impianti a cicli combinati.
Così, secondo le statistiche pubblicate da TERNA, a fine 2011 la potenza dei
cicli combinati in puro assetto elettrico era salita a 25.065 MW e, secondo il
Rapporto del luglio-dicembre 2012 del Ministero dello Sviluppo Economico
sull’andamento delle autorizzazioni, nel 2012 si sono aggiunti altri 1.150 MW,
tutti entrati in esercizio nel primo semestre. Siamo quindi arrivati a quota 25.000
MW, a seguito di scelte imprenditoriali poco ponderate, a cui
anche il pamphlet accenna, ma in termini eufemistici: «Probabilmente alcune imprese hanno
fatto qualche investimento di troppo» (corsivo mio). In realtà,
rispetto alla potenza considerata sufficiente nel 2006, si è raggiunto un
surplus di circa 6.500 MW. Poiché lo stesso Chicco Testa ha stimato in 2.440
ore il funzionamento medio, nel 2012, dei cicli combinati in puro assetto
elettrico, a parità di altre condizioni, senza questa zeppa aggiuntiva, nel
2012, i cicli combinati sarebbero potuti arrivare a 3.250 ore, un incremento
del 33%, niente affatto trascurabile.
Nel 2012 la produzione dei cicli combinatiè
stata intorno a 61 TWh. Sempre nel 2012, il fotovoltaico ha generato 18,8 TWh.
Supponiamo una produzione dimezzata, grazie a misure d’incentivazione molto
restrittive. Se la quota di offerta così liberata fosse andata tutta ai cicli
combinati (ipotesi ottimistica), il loro numero medio di ore di funzionamento
sarebbe arrivato intorno a 2.800, ancora largamente insufficiente. Perfino un
draconiano divieto di installare impianti fotovoltaici in Italia avrebbe
portato a rasentare 3.200 ore, cioè una cifra lievemente inferiore a quella che
si sarebbe ottenuta limitando la potenza installata ai 19.500 MW, indicati come
sufficienti nel 2006.
La riduzione netta dei prezzi, imputabile al
solo fotovoltaico, secondo l’IREX Annual report 2013, è stata pari a circa 838
milioni nel 2012 ed
è destinata a incrementarsi ulteriormente, in presenza di un volume crescente
di impianti alimentati da fonti rinnovabili
Per esempio E.On,
primo produttore elettrico tedesco, per bocca del suo amministratore delegato
ha annunciato la chiusura in Europa di gruppi elettrici per circa 11 GW
(potenza probabilmente destinata a crescere), perché non più redditizi. Con la
conseguente decisione di rinviare al 2015 l’impegno di costruire in Sardegna, a
Fiume Santo, un gruppo a carbone da 410 MW in sostituzione dei due esistenti, a
olio combustibile. Un rinvio che ha tutta l’aria di un disimpegno mascherato.
Anche Gdf-Suez
chiuderà in Olanda e Ungheria cinque gruppi a cicli combinati, per un totale di
2,1 GW, ed è allo studio la fermata di altre unità, per complessivi 3,3 GW.
Secondo il quotidiano economico francese Les Echos, a partire dal 2009 GdF-Suez
ha già fermato dieci centrali per complessivi 5,2 GW. E siamo solo all’inizio.
Secondo il rapporto The
unsubsidised solar revolution, pubblicato il 15 gennaio 2013 dalla
banca svizzera UBS, i prossimi anni vedranno una rapida crescita del
fotovoltaico in Europa anche in assenza di incentivi.
Lo studio analizza i
casi di Germania, Italia e Spagna, stimando che nel 2020 ci potrebbero essere 43
GW fotovoltaici installati senza incentivi diretti, in parte
accoppiati a sistemi di accumulo, con un’incidenza sulla produzione
termoelettrica compresa tra il 6 e il 9% (Figura 5).
L’analisi effettuata da UBS sottolinea inoltre che la sola espansione non
sussidiata del solare al 2020 comporterebbe, in Germania, uncalo medio del 10% del prezzo del
kWh sul mercato
elettrico, con ulteriori difficoltà per gli operatori elettrici tradizionali,
che si vedrebbero dimezzare i profitti. Da qui il segnale dell’Istituto
bancario a vendere le azioni di una serie di utility tedesche, spiazzate dalle
novità. È dunque comprensibile la reazione degli interessi colpiti.
La crescente pressione da parte dei grandi
produttori elettrici perché passi una misura di sussidio finanziario
(impropriamente chiamata capacity payment),
in grado di porre almeno in parte rimedio agli errori commessi, fornisce la
seconda chiave interpretativa (che trova inquietanti riscontri nel documento
per la consultazione dell’Autorità per l’energia 183/2013/R/EEL.
Sfuma perfino la tradizionale distinzione fra
venditore e acquirente, in quanto sempre più spesso in tempi diversi il
medesimo soggetto assume entrambi i ruoli. Forse alla fine diverremo
tutti fornitori/fruitori di servizi. Attività tradizionali ne
usciranno sostanzialmente modificate, in qualche caso cederanno il passo a
nuove produzioni, a nuovi servizi.
C'è qualcosa di
strano ultimamente nel mercato elettrico italiano: mentre il fotovoltaico,
assieme alle altre rinnovabili, spinge il prezzo dell'energia in basso nelle
fasce centrali della giornata, alla borsa elettrica aumentano
in maniera anomala i prezzi nel picco serale. Un fenomeno
difficile da spiegare se non con una difesa dei produttori da fonti
tradizionali dalla concorrenza delle rinnovabili e in particolare del solare,
tra le energie pulite quella che più impatta sulle ore diurne di maggior
domanda.
Come sappiamo, il
FV, che ha ormai superato quota 13 GW di potenza installata, sta decisamente
facendo sentire il suo peso nel sistema elettrico: producendo a costi marginali
nulli (non serve più combustibile per dare un kWh in più), nelle ore centrali
fa concorrenza alle centrali tradizionali e riesce a contenere il prezzo
dell'energia. Prima dell'esplosione del solare, alla borsa
elettrica c'erano due picchi di prezzo: uno di giorno, verso le 11 di mattina,
e uno di sera, verso le 18-20. Ora il picco delle 11 di mattina è praticamente
scomparso. In compenso il picco di prezzo serale è schizzato verso l'alto.
Ad esempio 4
anni fa, giovedì 13 marzo 2008, prima che il fotovoltaico
tagliasse i prezzi diurni, tra le 18 e le 20 non si superavano i 120
euro/MWh (vedi curva); giovedì 14 marzo 2012,
invece, il prezzo del MWh è arrivato a sfiorare i 175
euro (vedi curva) e in alcuni mercati zonali (i
cui prezzi concorrono poi alla formazione del prezzo nazionale) come quello
della Sardegna il prezzo dalle 18 è salito fino ad arrivare ai 250 euro,
per rimanere tale fino a mezzanotte (vedi curva).
Eppure la domanda
di elettricità durante le ore serali non è cresciuta, anzi: a
livello nazionale nel 2008 sfiorava i 50mila MWh, ora si ferma a circa 43mila.
Cosa succede? Perché questo aumento dei prezzi concentrato nel picco serale?
Una parte della spiegazione si può cercare nell'aumento del prezzo del gas (che come si capisce nella nostra intervista a Orlandi di Sorgenia ha un grosso peso). “Ma il
prezzo del gas è uguale in tutte le ore, non può essere questa la spiegazione”,
obietta il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, cui Qualenergia.it
ha chiesto lumi.
E allora come
giustificare i prezzi stellari che arrivano alla sera? “Succede che durante il
picco serale i produttori da fonti
convenzionali, che ci rimettono nella fascia diurna,cercano di rifarsi”,
ci spiega l'ex amministratore Enel, ora presidente di Ises Italia
G.B. Zorzoli. E Tabarelli conferma: “Altre spiegazioni non ce ne sono”.
Se il fotovoltaico
fornendo energia a basso prezzo di giorno fa risparmiare tutti (l'ultimastima di Irex è che il peak
shaving nel
2011 abbia tagliato la bolletta di circa 400 milioni di euro) a rimetterci
infatti sono i produttori da fonti convenzionali, specie quelli
che hanno investito nei nuovi cicli combinati. Questi per
ripagarsi i costi dovrebbero funzionare circa 4-5mila ore l'anno, invece ne
stanno funzionando 2.500-3mila proprio a causa della concorrenza del
fotovoltaico che impone loro di stare fermi durante gran parte della fascia
diurna.
Dietro la crescita
vertiginosa del picco serale c'è dunque un cartello degli operatori da fonti tradizionali
che agisce per rifarsi dei guadagni erosi dal fotovoltaico? “Non posso
affermarlo, ma se fossi nell'Antitrust
un'occhiata ce la darei”, ci risponde Zorzoli. “Stiamo
vivendo le prime avvisaglie di una transizione epocale che vede le nuove
energie pulite guadagnare terreno rispetto alle tradizionali fonti fossili, i
cui operatori tendono a difendere la loro posizione
dominante sul
mercato - commenta l'esperto di energia Alex Sorokin - alla luce di
questi sviluppi, le istituzioni e la politica sono chiamati a fare da
arbitro. Sarebbe poco equilibrato incolpare per l’aumento della
bolletta soltanto le rinnovabili".
Che lo schizzare dei
prezzi nel picco serale sia effetto della concorrenza del FV, d'altra parte, lo
ammette anche Assoelettrica,
interpellata da Qualenergia.it: “I costi di produzione salgono perché anche se
gli impianti vengono chiamati a produrre solo per 2-3 ore, ci spiegano, a causa
dei tempi di accensione e spegnimento, devono comunque restare accesi anche per
9 ore”.
Una spiegazione che
giustifica con motivi tecnici il fatto che lavorando meno a causa del
fotovoltaico devono rifarsi con i prezzi più alti alla sera. Resta da vedere se
questo recupero dei costi violi le leggi della concorrenza.
“Non lo possiamo escludere, ma non sembra ci siano posizioni dominanti tali in
Borsa da farlo: laddove c'erano, sono state limate”, ci rispondono dall'Autorità
per l'energia. Anche Tabarelli rassicura “Non possiamo saperlo, io non credo
che si mettano d'accordo e che dunque ci sia qualcosa di illegale, ma di sicuro
è un modo di recuperare i costi e dunque una grossa inefficienza nel nostro mercato elettrico”.
D'altra parte se di
cartello si trattasse non sarebbe la prima volta che in questo settore si
applicano pratiche scorrette per tenere alto il prezzo dell'elettricità nelle
ore di picco. E' quello che sono state scoperte a fare nel 2010, ci spiegano
dall'Antitrust, siaEnel
e Enel Produzione (EP)
che Edipower e le sue società ‘toller’ (A2A Trading, Edison Trading,
Iride Mercato, Alpiq Energia Italia) per quel che riguarda il mercato zonale
siciliano. Le pratiche, spiega l'AGCM “consistevano nell’offrire i propri
impianti secondo modalità volte a mantenere il prezzo zonale siciliano ad
elevati livelli nelle ore di picco, provocando un aumento del
costo dell’energia elettrica acquistata da tutti gli utilizzatori italiani”.
Ora dunque sta
all'Aeeg e all'Agcm raccogliere
informazioni sull'anomalo aumento del picco serale nel nostro sistema
elettrico. Essendo i dati sulle operazioni in Borsa non accessibili al
pubblico, solo loro hanno gli strumenti per stabilire se siano in atto
comportamenti lesivi della concorrenza o se siamo semplicemente di fronte a
un'inefficienza del mercato nell'accogliere il contributo ormai considerevole
delle rinnovabili.
Un'inefficienza che
potrebbe essere eliminata con lo sviluppo della cosiddetta smart grid e dei
sistemi di accumulo. Se i pompaggi idroelettrici attualmente sono
sottoutilizzati, anche per limiti tecnico-economici (sono lontani dagli
impianti a rinnovabili e usare altre fonti per pompare l'acqua in salita è
economicamente inefficiente), il
picco serale potrebbe essere “limato” dai sistemi di accumulo che si stanno sviluppando.
Ovviamente questo danneggierebbe gli interessi di chi guadagna dagli attuali
prezzi alti delle ore serali. Non è dunque forse un caso che a opporsi al piano
di Terna per sviluppare nuovi accumuli a batteria ci siano proprio i produttori
elettrici, Enel in testa.
il fenomeno del prezzo a zero non è una novità.
Già l'anno scorso nei week-end estivi abbiamo osservato dinamiche simili. Nel
2013, l'ulteriore calo della domanda, l’aumento dell’offerta di rinnovabili non
programmabili e una stagione invernale eccezionalmente ventosa e piovosa ne
hanno facilitato l'occorrenza anche fuori dalla stagione estiva. Nei prossimi
mesi succederà ancora più di frequente, per l'incremento stagionale dalla
produzione solare. Si può dire che il PUN, ormai dipenda tanto dalla quantità
di energia richiesta, quanto dalla presenza di sole e vento: se questi sono
abbondanti, riescono a farlo calare anche più che in giorni con domanda minore,
ma poca generazione rinnovabile.
Ad andare in crisi quindi non è il disegno di
mercato, è il modello economico di impianti di generazione concepiti come base
load, ossia per funzionare 24/7, o almeno accendersi al mattino per
spegnersi in tarda serata. Con l’affermazione del fotovoltaico quegli impianti
sono in difficoltà. Forse la sovraincentivazione del fotovoltaico ha anticipato
di qualche anno questa crisi, magari improvvidamente, ma in un paese ad
alta irradiazione come l’Italia era inevitabile che accadesse vista la curva di
costo della tecnologia solare. La generazione con gas naturale, del resto,
è in crisi anche all’estero, ma il caso italiano è più grave perché i
nostri impianti sono troppi e quasi tutti nuovi.
Un buon numero di questi impianti dovrà essere
comunque essere messo a riposo. Questo non dipende solo dalle rinnovabili, ma
soprattutto da 50 TWh annui di domanda in meno rispetto a quanto atteso quando
molti di quegli impianti sono stati costruiti, nello scorso decennio.
"Il forte
incremento delle rinnovabili - vi si legge - ha avuto un profondo impatto negativo sui prezzi della produzione e la competitività delle società
attive nella generazione termoelettrica in Europa. Quelle che un tempo erano
considerate aziende stabili hanno visto il loro modello di business sconvolto e
noi ci aspettiamo che la crescita progressiva della produzione rinnovabile intacchi ulteriormente la qualità del credito delle utility europee".
Fino a qualche anno
fa, quando le fonti pulite erano ancora marginali, era impensabile che
potessero mettere in crisi il settore termoelettrico. Con il boom di solare ed
eolico degli ultimi due anni, la situazione è cambiata nettamente: tra i primi
su queste pagine abbiamo fatto notare come l'energia a costo marginale zero
prodotta da sole e vento stesse facendo una dura concorrenza alle centrali
termoelettriche, soprattutto i cicli combinati a gas, tanto da
mettere a rischio gli investimenti fatti su questi impianti (vedi per
esempio qui).
Il freno alle
rinnovabili imposto con il quinto conto energia e il decreto
rinnovabilielettriche, è la lettura di molti, arriverebbe più dalla
volontà di difendere il termolettrico da uno sviluppo incontrollato di
fotovoltaico ed eolico, che dalle preoccupazioni per il peso degli incentivi in
bolletta. Un sospetto confermato da particolari come il fatto che la prima
bozza del quinto conto energia fotovoltaico sembra sia uscita dal computer di
un'analista Enel.
Ora Moody's –
che lunedì ha declassato il rating di Enel da "Baa1" a
"Baa2" con outlook negativo anche per la concorrenza che l'azienda
deve subire dalle rinnovabili (vedi qui, pdf)
- ribadisce le motivazioni che i grandi del
termoelettrico hanno per temere lo sviluppo delle energie pulite.
E anche la ragione per cui i grandi dell'energia tradizionale frenano
sullo sviluppo di sistemi di accumulo: questi potrebbero
"penalizzare ulteriormente i prezzi di picco" incrementando la
competitività delle rinnovabili ed emarginando ancor più la produzione
termoelettrica.
A salvare il
termoelettrico potrebbe essere il capacity
payment, ossia la remunerazione di certi impianti, come
appunto i cicli combinati a gas, per la potenza messa a disposizione anziché
solamente per l'energia prodotta. Una misura allo studio di vari Governi, tra
cui il nostro (vedi Qualenergia.it),
che potrebbe avere un impatto positivo sul rating dei produttori da fossili –
spiegano da Moody's – sottilneando però che “la tempistica e le modalità
rimangano incerte". Senza contare che tali politiche di sussidi potrebbero
contrastare con le indicazioni del Terzo pacchetto UE per la rimozione delle
barriere tra gli Stati e la maggiore interconnessione energetica.
in Italia infatti ci
sono circa 25 miliardi di euro investiti nei cicli combinati a gas che
ora, anche a causa della concorrenza delle rinnovabili, ma certo non solo per
quella, rischiano di andare persi. Investimenti fatti relativamente di recente
con scarsa lungimiranza, dato che già si conosceva la situazione di
overcapacity cui si sarebbe andati incontro e lo sviluppo che le rinnovabili
dovevano avere per soddisfare gli obiettivi europei. Ma anche un capitale, in
gran parte investito dalle banche, tale da rendere realisticamente difficile
che questi impianti, peraltro molto flessibili e meno inquinanti delle centrali
a carbone, vengano lasciati al loro destino.
Marzia Germini è l’analista dell’ENEL dal cui computer è
uscito il quinto conto energia poi ri-etichettato dal Ministero dello sviluppo
economico.
In 7.970 Comuni italiani si trova almeno un impianto
alimentato a fonte rinnovabile, cioè pari al 98% di tutti i Comuni italiani.
Erano 3.190 nel 2008. Oggi in Italia sono in funzione oltre 600mila impianti da fonti rinnovabili di grande e piccola
taglia, termici ed elettrici compongono un sistema di generazione sempre più
distribuita che nel 2012 ha garantito il28,2% dei consumi
elettrici e il 13% di quelli complessivi del nostro Paese.
I dati sono riportati nelle 122 pagine del nuovo rapporto Comuni Rinnovabili 2013(pdf) di Legambiente, realizzato con il contributo di GSE e Sorgenia e presentato oggi a Roma
nella sede del GSE.
I numeri, per quanto ne dicano gli oppositori delle rinnovabili, sono
importanti, in crescita e rilevanti anche per i tempi di incremento che si sono
registrati: dal 2000 ad oggi 47,4 TWh da fonti rinnovabili
si sono aggiunti al contributo dei “vecchi” impianti idroelettrici e
geotermici: dal solare fotovoltaico a quello termico, dall’idroelettrico alla
geotermia ad alta e bassa entalpia, agli impianti a biomasse e
biogas. Importante anche la crescita della nuova potenza di rinnovabili
elettriche installata nel 2012: quasi 7 GW (3.662 MW di fotovoltaico, 1.791 MW
di eolico, 32 MW di mini idro, 1.400 MW di impianti a biomassa, 28 MW di
geotermia).
Ma ancora più interessante è l'incremento della produzione elettrica da rinnovabili che nel 2012 è stata pari
a 94,8 TWh malgrado il contributo
dell’idroelettrico sia sceso. Nel 2012, come detto, si è raggiunto il 28,2% dei
consumi elettrici complessivi italiani (Produzione lorda da fonti rinnovabili
rispetto al Consumo interno lordo (CIL) = Produzione lorda + saldo estero -
produzione da pompaggi, ndr). Questa quota era al 24,5% nel 2011. Sul
totale dei consumi energetici finali la quota è invece del 13% (obiettivo
per l'Italia lal 2020 è il 17%) dei consumi energetici finali. Era del
5,3% nel 2005.
Come stia cambiando il parco elettrico italiano lo dimostra questo grafico
che confronta la produzione elettrica per fonte nel 2000 e quella del 2011.
Come ha spiegato Legambiente nel suo report la crescita della
produzione rinnovabile ha permesso di sostituire quella da impianti termoelettrici, calata di 61 TWh tra il 2007 e il
2012, anche a causa della crisi. Sono diminuite le importazioni di
petrolio e di gas da usare nelle centrali e di conseguenza anche le
emissioni di CO2. Va anche considerato che prima dei decreti Passera del luglio
2012 il numero degli occupati nel settore delle rinnovabili era stimato in
120mila unità.
ALCUNI NUMERI DEL RAPPORTO:
Sono 27 i Comuni 100% rinnovabili,
quelli che rappresentano oggi il miglior esempio di innovazione energetica e
ambientale (pag.34 del rapporto). In queste realtà, un mix di impianti diversi da
rinnovabili e impianti a biomasse allacciati a reti di teleriscaldamento
coprono interamente (e superano) i fabbisogni elettrici e termici dei
cittadini residenti. La classifica premia proprio la capacità di sviluppare il
mix più efficace delle diverse fonti (senza considerare geotermia e grande
idro), e non la produzione assoluta, perché la prospettiva più lungimirante e
vantaggiosa per i territori è rispondere alla domanda di energia valorizzando
le risorse rinnovabili presenti.
Sono 2400 i Comuni 100% rinnovabili per
l’energia elettrica, ossia quelli dove si produce più energia di quanta ne consumino le
famiglie residenti.
I Comuni del solare in Italia sono 7.937, un numero in crescita che evidenzia come con il sole si produca oggi energia
nel 97% dei Comuni. Spetta a Casaletto di Sopra (Cremona) e a Don (Trento) il
record di impianti per abitante, rispettivamente per il fotovoltaico e per il
solare termico.
I Comuni dell’eolico sono 571. La potenza installata (8.703 MW) è in crescita, con 1.791 MW in più
rispetto al 2011. Questi impianti hanno consentito di produrre 13,1 TWh nel
2012, pari al fabbisogno elettrico di oltre 5,2 milioni di famiglie. Sono 296 i
Comuni che si possono considerare autonomi dal punto di vista elettrico grazie
all’eolico, poiché si produce più energia di quanta se ne consuma.
I Comuni del mini idroelettrico sono 1.053. Il Rapporto prende in considerazione gli impianti fino a 3 MW. La
potenza totale installata nei Comuni italiani è di 1.179 MW ed è in grado di
produrre ogni anno oltre 4,7 TWh, pari al fabbisogno di energia elettrica di
oltre 1,8 milioni di famiglie.
I Comuni della geotermia sono 369, per una potenza installata pari a 915 MW elettrici, 160 termici e 1,4
frigoriferi. Grazie a questi impianti nel 2012 sono stati prodotti circa 5,5
TWh di energia elettrica in grado di soddisfare il fabbisogno di oltre 2
milioni di famiglie.
I Comuni delle bioenergie sono 1.494 per una
potenza installata complessiva di 2.824 MW elettrici e 1.195 MW termici. Gli
impianti utilizzano biomasse solide, gassose e liquide. In particolare quelli a
biogas sono in forte crescita e hanno raggiunto complessivamente 1.133 MWe
installati e 135 MWt e 50 kw frigoriferi termici. Gli impianti a biomasse, nel
loro complesso, hanno consentito nel 2012 di produrre 13,3 TWh pari al
fabbisogno elettrico di oltre 5,2 milioni di famiglie.
Sono 343 i Comuni in cui gli
impianti di teleriscaldamento utilizzano fonti rinnovabili, come biomasse “vere”
(di origine organica animale o vegetale provenienti da filiere territoriali) o
fonti geotermiche, attraverso cui riescono a soddisfare larga parte del
fabbisogno di riscaldamento e di acqua calda sanitaria.
26 marzo 2013
+ 53% in un decennio - siano le rinnovabili, è
invece dipendenza del nostro Paese dalle importazioni da fonti fossili.
Basti dire che nelle bollette la voce legata al prezzo del petrolio è passata
da 106,6 Euro a 293,96. Inoltre se è vero che il peso nelle bollette delle
famiglie legato all'incentivo per le fonti rinnovabili è cresciuto, arrivando
al 14,9%, vanno ricordati anche i vantaggi che queste producono. Le “nuove”
fonti rinnovabili (dunque grande idroelettrico escluso) sono passate in tre
anni da 25 a oltre 47,4 TWh prodotti, contribuendo a raggiungere nel 2012 un
risultato record con oltre il 28% dei consumi soddisfatti da energie pulite.
Secondo l'Irex Annual Report 2013 il bilancio
costi-benefici, considerando dunque la spesa per gli incentivi e i vantaggi
(riduzione prezzo elettricità, rischio petrolio, emissioni di CO2, effetti
sull'occupazione e sul Pil), è ampiamente positivo con benefici
netti compresi tra 19 e 49 miliardi. Stessa cosa non si può
dire per i 52 miliardi di euro che complessivamente abbiamo regalato e stiamo
continuando a regalare a centrali inquinanti e da fonti fossili attraverso il
meccanismo del CIP 6 pagato
con le bollette.
Rinnovabili
e mercato del gas
Dal 2008 a oggi, il
contributo delle fonti rinnovabili innovative (fotovoltaico, eolico e biomasse)
è passato da 11 a circa 45 TWh di produzione lorda. Queste fonti hannospiazzato la produzione a gas:
circa 6 miliardi di metri cubi di minori importazioni.
Se l’impatto diretto
delle rinnovabili sul mercato elettrico è ormai evidente, quello sul mercato
del gas è meno noto. Fra 2008 e 2012 il fabbisogno gas è sceso di oltre 10
miliardi di metri cubi: di questi, quasi 9 sono dovuti al minor fabbisogno
termoelettrico, a sua volta tagliato per due terzi dalle
rinnovabili e per un terzo da calo della domanda e maggiore produzione a
carbone (al netto del minor uso di olio combustibile). In altre parole, le
rinnovabili elettriche sono il principale fattore dietro il drastico riequilibrio
fra domanda e offerta che
ha portato anche in Italia al decouplingfra prezzo
di gas e petrolio, e a quotazioni spot addirittura a sconto rispetto
agli hubcontinentali.
La conseguenza? Prezzi
dell’elettricità più bassi in tutte le fasce orarie, non solo
quelle irradiate dal sole, e gas più economico anche per forniture residenziali
e industriali.
Ora, quanto dei
dieci miliardi e mezzo di incentivi torna ai consumatori come
minor costo delle commodity? Sarebbe ora che qualcuno in Via Molise
questa analisi la facesse, sul serio. La Strategia Energetica Nazionale stima
ancora il peak shaving del fotovoltaico a 400 milioni
di euro: sono numeri del 2011, quando solo una minima parte della produzione
fotovoltaica reale pesò sui prezzi di mercato.
Per un’idea delle
vere grandezze in gioco, guardiamo il margine industriale lordo di Enel
nella generazione: nel 2009, annus horribilis, era
di 3 miliardi di euro; nel 2012 ne sono rimasti solo 1,3. Enel, con il 26% del
mercato, ha perso da sola 1,7 miliardi di margine. Edison è passata da 1,2 miliardi a 600
milioni, e così via. Non dipenderà solo dal fotovoltaico, ma altro che 400
milioni.
Le criticità
Lo sviluppo delle
rinnovabili è stato tumultuoso: le criticità emerse sono numerose. Qui ci
limitiamo a quelle che, se non gestite, rischiano di destabilizzare
il sistema nel suo complesso. Sul piano
tecnico, la maggior sfida è l’erosione del margine di riserva primaria
che affligge il sistema al crescere delle fonti non programmabili. La riserva
primaria è il
margine di potenza incrementale che gli impianti programmabili in funzione sono
obbligati da Terna a mantenere in ogni momento, per far fronte a eventuali perturbazioni
sulla rete. Più impianti convenzionali sono spiazzati, minori i margini di
sicurezza, e il trend attuale è insostenibile. Sul piano
economico, le maggiori criticità riguardano invece la
remunerazione degli impianti convenzionali e l’effetto distorsivo degli
incentivi in bolletta.
Le rinnovabili
intermittenti rimpiazzano energia, non capacità. Con un mercato elettrico
dominato da impianti convenzionali, in condizioni normali il prezzo di
equilibrio remunerava sia l’energia che la capacità. Oggi non è più così: sulla formazione
del prezzo pesa
in misura determinante un volume crescente di energia prodotta da fonti
intermittenti, la cui potenza non può essere considerata capacità ai fini
dell’adeguatezza del sistema. Se oggi l’overcapacity nella generazione convenzionale
rende questo un non-problema, nel medio termine si pone l’esigenza di remunerare
la capacità convenzionale necessaria a coprire i picchi di carico residuo (peraltro sempre più rari per il
menzionato gioco di squadra fra fonti rinnovabili). E poi ci sono gli incentivi
in bolletta. Dieci miliardi e mezzo sono un’enormità, pari a una carbon
tax di oltre
20 euro per tonnellata di CO2 emessa in Italia. Che pesa però solo sulle utenze
elettriche, in particolare piccole e medie imprese, mentre i benefici sono
diffusi. È uno stato di cose insostenibile, oltre che iniquo.
Un sistema anche per
le rinnovabili
Di fronte a queste
sfide non bastano ritocchi al sistema, occorre un ridisegno
articolato su
almeno sei aree di intervento:
• Terzietà
dell’infrastruttura. Quando quindici anni fa si liberalizzò il
sistema elettrico, il primo passo fu l’indipendenza della rete di trasmissione.
Oggi la concorrenza è fra generazione distribuita e generazione centralizzata,
fra fonti convenzionali e intermittenti: porre il tema della terzietà di reti
di distribuzione e capacità di accumulo esistente (ovvero impianti
idroelettrici a pompaggio) non è provocatorio, è ovvio;
• Accumuli.
Sono una necessità, non un lusso: senza batterie a fornire riserva primaria, il
sistema diventa ostaggio di una quota significativa di fabbisogno da fornire
con impianti convenzionali. Le limitazioni sempre più frequenti che Terna
impone alle bande di import, riducendo così l’apporto di una fonte a basso
costo, sono prova evidente delle diseconomie che ciò comporta;
• Sistemi
di distribuzione chiusi. Con penetrazioni crescenti di
generazione distribuita non programmabile, la decentralizzazione del
dispacciamento (ossia la responsabilizzazione delle utenze rispetto alla
gestione del profilo di prelievo/immissione in rete) diventa un fattore
cruciale di flessibilità ed efficienza del sistema. Se i distributori soffrono
vincoli finanziari (e conflitti d’interesse) dei gruppi di appartenenza, le smart
grid possono e
devono nascere dal basso, attraverso la condivisione fra utenze di impianti di
generazione e sistemi di accumulo. Ma perché ciò accada è necessario che lo
sfavore regolatorio per i sistemi di distribuzione chiusi sia superato;
• Servizi
di dispacciamento. L’intento dichiarato dell’Autorità è quello
di far partecipare le fonti rinnovabili ai costi di dispacciamento che esse
contribuiscono a creare. In prospettiva, l’obiettivo dovrebbe essere invece di
favorire la partecipazione attiva delle rinnovabili al mercato dei servizi di dispacciamento,
non semplicemente alla copertura dei costi;
• Capacity payment. Ove un numero consistente di impianti convenzionali fosse
messo a riposo, e i prezzi continuassero a non essere remunerativi per quelli
residui, parlare dicapacity
payment sarebbe
inevitabile. In verità ci si sta già lavorando, e forse è prematuro. In ogni
caso, è necessario che il dispositivo sia neutrale rispetto alla soluzione
tecnologica, e quindi accessibile a parità di prestazioni anche a generazione
distribuita e sistemi di accumulo;
• Carbon tax. Il graduale trasferimento dell’onere di incentivazione dalle
bollette alla fiscalità generale è un tema difficile ma ineludibile.
L’ipertrofia della porzione amministrata della bolletta elettrica, oltre a
essere insostenibile per alcune categorie di clienti, disincentiva una maggiore
penetrazione del vettore elettrico in utilizzi (come il riscaldamento con pompe
di calore) che migliorerebbero l’efficienza aggregata del sistema. Una carbon
tax che
riallocasse l’onere di incentivazione dalle bollette elettriche agli usi di
combustibile, proporzionalmente al contenuto di CO2, rimuoverebbe le
distorsioni e internalizzerebbe nel sistema dei prezzi le diseconomie
ambientali dei combustibili fossili.
Indietro non si
torna
L’esplosione delle
rinnovabili elettriche ha imposto un cambio di paradigma ai mercati
dell’elettricità e del gas, dimostrando che un’alternativa
esiste. Il prezzo è stato una colossale distorsione delle dinamiche competitive
e il proliferare di operazioni speculative, effetto di oltre dieci miliardi di
euro l’anno di incentivi.
La domanda è ovvia:
non si poteva fare meglio? In un mondo ideale sì, e a una frazione del costo.
Ma la realtà è diversa: gli interessi colpiti dallo sviluppo su larga scala delle
fonti rinnovabili, soprattutto in un contesto recessivo, sono enormi. L’ETS doveva essere la risposta
razionale alle
diseconomie ambientali dei combustibili fossili: ebbene, i gruppi di pressione
hanno ottenuto allocazioni a buon mercato di diritti di emissione al di là di ogni
logica. Il naufragio è sotto gli occhi di tutti.
Con un pizzico di
cinismo, vien da dire che il cambio di paradigma potesse avvenire solo “per
sbaglio”. Così è stato: ora c’è da rimettere ordine, ma indietro non si torna.
http://qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/ResearchDocument%20termoelettrico.pdf